Melbourne, gli All Blacks… e il console
Partiti da Canberra, giacca e cravatta più una borsa, come per una normale partita di campionato.
Invece siamo arrivati non a Calvisano o a L’Aquila, ma a Melbourne, città magnifica, alta densità umana e femminile, insomma: Australia. Albergo in centro, roba di lusso.
Poi grande padiglione e presentazione ufficiale di tre squadre: Nuova Zelanda, Canada e Italia, appunto. E consegna del cappellino, che qui chiamano semplicemente “cap”, anche questo ufficiale, tipo da baseball ma con un ciuffetto dorato.
Neozelandesi e canadesi mi hanno fatto impressione.
I canadesi perché sono grandi e grossi. Anche i neozelandesi sono grandi e grossi, ma in più saranno anche bravi. Li ho visti da lontano, perché se poi gli vai vicino, rischi di fare amicizia, e invece fino alla fine della partita è meglio coltivare una sana e sportiva inimicizia. Li ho visti come al solito, guardandoli dal basso verso l’alto.
Comunque qualcuno, nonostante la lontananza e il punto di vista, l’ho riconosciuto.
Jerry Collins, il numero 8, è uno di quelli che si riconoscono anche a occhi chiusi. Senti la sua presenza. Ingombrante.
Mi sono detto: “Questo qui è meglio che non lo guardi dalla cintola in su, altrimenti mi viene il mal di stomaco”. Non perché sia brutto. E’ che non finisce mai. Così gli guardavo solo le gambe. E le sue gambe a un certo punto finiscono. Quasi all’altezza della mia testa.
Poi Justin Marshall, il mediano di mischia, mio avversario diretto. Un monumento. Solo che è un monumento di quelli che non stanno fissi su un piedistallo, ma che si muovono a cento all’ora.
Volendo, c’era anche da mangiare e bere. Noi solo acqua e succhi di frutta. Il nostro preparatore atletico, Pascal Valentini, girava con una telecamera per documentare chi trasgrediva gli ordini. C’era anche il console.
Ho sempre pensato che i consoli fossero degli italiani ricconi che se la godono all’estero. A occhio, avevo ragione.